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San Giovanni Battista

Merisi Michelangelo detto Caravaggio

(Milano 1571 - Porto Ercole 1610)

Il quadro faceva parte del gruppo di dipinti portati con sé dall’artista nel viaggio di ritorno via mare da Napoli a Roma, intrapreso nel 1610 dal pittore con la speranza di ottenere la grazia dalla condanna a morte inflittagli nel 1606 da Paolo V. L’intento era quello di ottenere l’intercessione del papa, offrendo le opere in dono a suo nipote, il cardinale Scipione Borghese, già proprietario della Madonna dei Palafrenieri (inv. 110), Il ragazzo con canestra di frutta (inv. 136) e l’Autoritratto in veste di Bacco (inv. 534). Ma, come affermano alcune missive, nei pressi di Palo, sulla costa a nord di Roma, Caravaggio venne ingiustamente imprigionato, perdendo così la nave che trasportava il suo prezioso bagaglio.

L'opera rappresenta Giovanni Battista, figlio di Elisabetta e cugino di Gesù, qui ritratto sorpreso a meditare in un ambiente ombroso accanto a un montone, simbolo della redenzione dell’uomo attraverso il sacrificio di Cristo. Il santo è raffigurato seduto su un lungo drappo rosso, colore che allude al sangue versato durante il suo martirio, mentre sostiene con la mano sinistra un'esile canna, un riferimento alla vita di penitenza e di preghiera vissuta dall'uomo nel deserto.


Scheda tecnica

Inventario
267
Posizione
Datazione
1609-1610
Tipologia
Periodo
Materia / Tecnica
olio su tela
Misure
cm 152 x 125
Cornice

Cornice seicentesca decorata con girali e rosette in campo scuro (cm 154,5 x 130 x 8)

Provenienza

Napoli, marchesa Costanza Colonna, 1610 (Pacelli 1991); Roma, collezione Scipione Borghese, 1611 (Pacelli 1991); Roma, collezione Borghese, 1613 (Francucci 1613); Inventario 1693, Stanza VII, n. 46; Inventario 1790, Stanza X, n. 40; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 19. Acquisto dello Stato, 1902.

Mostre
  • 1914 Roma, Palazzo Corsini;
  • 1951 Milano, Palazzo Reale;
  • 1985 Roma, Palazzo Venezia;
  • 1986-1987 Roma, Palazzo Barberini;
  • 1991-1992 Firenze, Palazzo Pitti;
  • 1992 Roma, Galleria Nazionale d'Arte Antica;
  • 1992 Roma, Palazzo Ruspoli;
  • 1999 Madrid, Museo Nacional del Prado;
  • 1999-2000 Bilbao, Museo de Bellas Artes;
  • 2000 Bergamo, Accademia Carrara;
  • 2004-2005 Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte;
  • 2005 Londra, National Gallery;
  • 2009 Kyoto, The National Museum of Modern Art;
  • 2010 Tokyo, Metropolitan Art Museum;
  • 2015 Montpellier, Musée Fabre;
  • 2019 Napoli, Museo di Capodimonte.
Conservazione e Diagnostica
  • 1913 Tito Venturini Papari (pulitura, rifoderatura);
  • 1936 Carlo Matteucci (sostituzione vecchio telaio, rifoderatura);
  • 1941 Carlo Matteucci;
  • 1947 Carlo Matteucci (rimozione vecchi restauri, rifoderatura);
  • 1980 Gianluigi Colalucci (rintelaiatura);
  • 1981-1982 Gianluigi Colalucci (radiografie);
  • 1988 EDITECH (indagini diagnostiche);
  • 2000 Giantomassi-Zari (restauro completo).

Scheda

Il dipinto è attestato per la prima volta in collezione Borghese nel 1613, segnalato da Scipione Francucci nel suo poemetto sulla collezione del cardinale Scipione presso il Palazzo di Ripetta, dove fu visto qualche anno dopo da Francesco Scannelli (1657) che nel Microcosmo della Pittura parla di "un ignudo di S. Gio. Battista" e accenna a "un altro simile a tutti d'ogni pare di apparente verità", esemplare - quest'ultimo - mai individuato. La presenza della tela caravaggesca presso la residenza di Campo Marzio ne spiega l'assenza negli inventari dei beni presenti nel casino pinciano, nonché la sua mancata citazione da parte di Iacomo Manilli (1650) e di Domenico Montelatici (1700), i quali nella visita della villa non potevano certamente farsi sfuggire questa preziosa opera. Di fatto in quegli anni la tela era conservata nell'anticamera "del Signor Principe verso il Giardino" dove fu descritta dall'estensore dell'inventario di Palazzo Borghese nel 1693: "un quadro grande con S. Gio. Batta. in tela nel deserto a sedere sopra un panno rosso del N. (sic.) cornice dorata di Mechel.o Caravaggi". Il nome, ben indicato dall'estensore del documento, fu mutato nel 1790 con quello di Valentin de Boulogne, giungendo in tal modo (Vasi 1794; Inventario Fidecommissario 1833; Piancastelli 1891) fino al catalogo di Adolfo Venturi (1893). Il primo a restituire debitamente il quadro al Merisi, partendo dal testo di Francucci, fu Lionello Venturi (1909; 1910), il cui parere fu accolto unanimemente da tutta la critica (Longhi 1913; Rouchés 1920; Marangoni 1922; Voss 1925; Pevsner 1928; Longhi 1928; Id. 1943; Id. 1951; Della Pergola 1951; Mahon 1951; Id. 1952; Friedländer 1955), ad eccezione dello Zahn (1928) e dello Schudt (1942) che giudicarono il dipinto una buona copia. Pubblicato nel 1959 da Paola della Pergola come opera autografa, il quadro fu ritenuto dalla studiosa 'coevo' al David (inv. 455) assumendo il 1605 come termine post quem; la direttrice, infatti, posticipando la datazione proposta da sir Denis Mahon (1952), secondo cui la tela sarebbe stata eseguita tra il 1602-1604, si pose nel solco tracciato da Lionello Venturi e da Roberto Longhi (1928; 1951; 1952; 1957), il quale riteneva che questo San Giovanni Battista "triste e insolente sotto rami di vite solforata" fosse stato dipinto dal Merisi ai limiti del soggiorno romano, ossia tra il 1605-1606. Tale tesi, accettata da Hinks (1953), da Baumgart (1955) e con qualche riserva da Friedländer (1955), Berne Joffroy (1959) e Juallian (1961), fu rimessa in discussione dallo stesso studioso una prima volta nel 1959, quando parlò di periodo palermitano, seguito da Bottari (1966); e una seconda volta nel 1968, anno in cui datò il dipinto al secondo soggiorno napoletano, sostenuto in questa sua nuova ipotesi da Angela Ottino Della Chiesa (1967), Maurizio Marini (1974; Id. 1987), Howard Hibbard (1983), Maurizio Calvesi (1990), Mia Cinotti (1991), Gianni Papi (1991) e Mina Gregori (1994); ma non da Raffaello Causa (1966), per il quale l'opera era riferibile al primo periodo napoletano. Tale questione, lungamente dibattuta, fu definitivamente risolta solo nel 1991 da Vincenzo Pacelli che in seguito alla scoperta di un inedito carteggio, avvenuto tra il 29 luglio 1610 e il 26 agosto 1611 tra il nunzio apostolico Deodato Gentile e il cardinale Scipione, fissò l'esecuzione dell'opera al 1610. Dalle cinque lettere, infatti, rinvenute dallo studioso, si sa che il pittore aveva dipinto per il cardinale Borghese, presumibilmente come dono in cambio della grazia concessagli da papa Paolo V, due versioni del San Giovanni Battista e una Maria Maddalena, opere portate dal Merisi sulla feluca che doveva accompagnarlo a Porto Ercole, dove l'artista giunse senza il suo prezioso carico, rimasto sul veliero dopo il suo arresto a Palo.

Riportati a Napoli, dunque, i dipinti furono trasportati nel palazzo Cellammare della marchesa Costanza Colonna - presso cui Caravaggio aveva soggiornato dopo il rientro dalla Sicilia - e qui sequestrati dietro la richiesta del rappresentante dell'Ordine di Malta che ne reclamò il possesso essendo stato Caravaggio un membro appartenente al potente ordine. Ma, tale istanza fu frenata dal viceré di Napoli, Pedro Fernández de Castro conte di Lemos, che avendo messo gli occhi sulle tele, ottenne uno dei due San Giovanni Battista, facendo copiare l'altro esemplare e forse il David, destinati a Scipione Borghese, da Baldassarre Alvisi, identificato con Baldassarre Aloisi detto il Galanino (Coliva 1999; Crespi 2004). Risolta la faccenda, il 29 agosto 1611 il nostro San Giovanni Battista prese la strada di Roma, giungendo nelle mani di Scipione Borghese che lo destinò al palazzo di città, dove rimase per quasi due secoli.

L'opera, una delle ultime prove dell'artista lombardo, riproduce un soggetto ampiamente affrontato da Caravaggio nella sua breve carriera, eseguito tra gli altri per Ciriaco Mattei (Roma, Musei Capitolini) e per Ottavio Costa (Kansas City, Nelson Atkins Museum). Come per altre sue composizioni, anche in questo caso il pittore si discosta dalla tradizione iconografica, privando il giovane martire dei suoi soventi attributi iconografici (la scodella, l'agnello, il bastone sormontato da una croce e dalla scritta Ecce Agnus Dei), una povertà di dettagli che rende questa immagine essenziale ma al contempo potente e ricca di significati, interpretati in vario modo dalla critica, a partire dal montone/ariete, ritratto mentre rosicchia alcune foglie di vite, rivolto verso l'interno del dipinto. Secondo la critica, infatti, tale gesto evocherebbe il sacrificio di Cristo (Moir 1982) come sottolineato dalla tipologia dell'animale raffigurato, un montone/ariete e non un agnello - bestia immolata da Abramo al posto di suo figlio Isacco - a cui Caravaggio rimanderebbe giocando con la traduzione della parola greca "arnion" che indica indistintamente l'agnello, il montone e la pecora (Schütze 2017). Maurizio Calvesi (1990), invece, stando agli Hierogliphica di Pierio Valeriano, ipotizza che l'ariete, in luogo della pecora, sia da connettere con la redenzione, essendo tale animale geroglifico della croce e la croce geroglifico della redenzione. Per Eberhard König (1997), infine, questo San Giovanni Battista - "congelato nella vaga malinconia di colui che tace e medita in attesa del Verbo" (Cinotti 1991) - sembra più un pastore che riposa nella selva che il santo profeta ricordato dai Vangeli, un'evoluzione iconografica resa sicuramente più asciutta ed essenziale da mettere in rapporto con l'estrema e ultima fase esistenziale del pittore.

 

Antonio Iommelli




Bibliografia
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  • L. Venturi, Opere inedite di Michelangelo da Caravaggio, in “Bollettino d’Arte”, VI, 1912, p. 4;
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