Questo 'Cristo portacroce', copia da Sebastiano del Piombo, proviene dalla ricca eredità di Pietro Aldobrandini, elencata successivamente nell'inventario dei beni di Olimpia Aldobrandini senior nel 1626. La tavola, di discreta qualità, è copia parziale della fortunata composizione del noto pittore veneziano, di cui esistono numerose versioni. In questo esemplare, dal fondo scuro, isolata emerge la figura di Cristo, ritratta mentre trascina la croce sul Golgota: il taglio ravvicinato, unito all'uso di una tavolozza scura, sembra infondere maggior pathos alla scena, rendendola di fatto più efficace dal punto di vista devozionale.
Salvator Rosa cm 90,4 x 67,5 x 6
Roma, collezione Olimpia Aldobrandini senior, 1626 (Inventario 1626, n. 83, n. 5; Della Pergola 1959); Inventario 1682; Roma, collezione Borghese, 1790 (Inventario 1790, Stanza IX, n. 26 (De Rinaldis 1937); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 17. Acquisto dello Stato, 1902.
Questa tavola proviene dalla ricca eredità di Pietro Aldobrandini, elencata successivamente nell'inventario dei beni di Olimpia Aldobrandini senior nel 1626 («Un Quadro con Christo che porta la Croce di Giulio Romano del n. 4») e successivamente nella raccolta di Olimpia Aldobrandini junior («Un quadro in tavola con Christo che porta la Croce di Giulio Romano alto palmi tre con cornice dorata e lavorata …»). Assente tra i quadri elencati nel palazzo di Campo Marzio nel 1693, il dipinto riappare nel 1790, attribuito in tale occasione alla «scuola di Michelangelo», giudizio ripreso nel fidecommesso ottocentesco e riportato nelle schede manoscritte di Giovanni Piancastelli (1891). Adolfo Venturi nel 1893 parlò di «Licinio (Scuola di Gio. Antonio), detto il Pordenone», nome scartato sia da Giulio Cantalamessa (1912), secondo cui apparteneva a un anonimo «debole pittore», sia da Roberto Longhi (1928), che lo considera di «mano italiana, non molto dissimile da quella di Marco Pino», ipotizzando come prototipo un'opera di Sebastiano del Piombo.
Nel 1959 Paola Della Pergola, riprendendo il parere precedentemente espresso da Longhi, pubblicò la tavola come copia parziale da Sebastiano del Piombo, eseguita da un ignoto pittore non oltre la prima metà del Cinquecento, identità in seguito precisata da Mauro Lucco (comunicazione orale in Sassu 2000) e Giovanni Sassu (2000), seguiti da Kristina Herrmann Fiore (2006), con quella di Prospero Fontana. Tale attribuzione è stata però respinta di recente da Giulia Daniele (2022) che nel catalogo ragionato delle opere di Fontana, esclude l'assegnazione della tavola all'artista bolognese sia per l'assenza di altre opere giovanili che mostrino un interesse per l'arte veneta, sia per l'incongruenza tra lo stile della tavola, caratterizzato da uno sfondo scuro e da un'intensità drammatica, e le opere tipiche dell'artista. A detta della studiosa, invece, si dovrebbe parlare di anonimo autore romano o fiorentino oppure riabilitare l'ipotesi Marco Pino, nome rilanciato da Pier Luigi Leone de Castris nel 1996 ma bocciato da Andrea Zezza nel 2003.
Di certo la fortuna di questo soggetto, reso ancor più popolare dalle diverse redazioni eseguite dallo stesso Luciani a partire dagli anni trenta del Cinquecento (Madrid, Museo del Prado, invv. P000348; P000345; San Pietroburgo, Ermitage, inv. ГЭ-77; Budapest, Szépművészeti Múzeum, inv. 77.1; si veda rispettivamente Lucco 1980, pp. 117 n. 76, 122 n. 93, 124 n. 98), spinse molti artisti a realizzarne diverse repliche, apprezzate e largamente ricercate soprattutto a partire dalla seconda metà del XVI secolo quando la Chiesa, in seguito al Concilio di Trento, invitò i pittori a produrre immagini fedeli al dettato evangelico, efficaci – come questo Cristo – di indurre sentimenti di pietà e devozione nei fedeli.