Mentioned in the inventory of Cardinal Gregorio Maria Salviati as an anonymous work, the painting was traced by critics to Guglielmo Cortese and dated to the seventh decade of the 17th century.
The scene depicts Saint Jerome who, having retired to a solitary place, turns to listen to the sound of a trumpet being played by an angel. The saint is portrayed with his typical iconographic attributes: the lion, from whose paw Jerome removed a thorn; the book, reference to the Sacred Scriptures translated by the saint from Greek into Latin; and the cardinal’s galero, or hat. The skull, next to the crucifix, and the stone Jerome holds refer to the saint’s resoluteness. He decided to withdraw from the world and live out the rest of his days between sacrifices and penances.
(?) Roma, collezione Gregorio Salviati, ante 1789 (Inv. Salviati, 1782-1789, n. 43; Della Pergola 1959); Roma, collezione Borghese, 1790 (Inv. 1790, St. V, n. 1); Inventario Fidecommissario, 1833, p. 19; Acquisto dello Stato, 1902.
Come indicato da Paola della Pergola (1959), il dipinto proverrebbe dall'eredità del cardinale Gregorio Salviati (1727-1794) identificato dalla studiosa nell'inventario del prelato con un "S. Girolamo di ignoto stragrande". Al di là di questa ipotesi, è certo che il dipinto è attestato in collezione Borghese a partire dal 1790, elencato nell'inventario di quell'anno come opera di Luca Cambiaso, nome mantenuto sia negli elenchi fedecommissari (1833), sia nel catalogo di Adolfo Venturi (1893). Nel 1912, Giulio Cantalamessa propose di assegnare il quadro a Francesco Trevisani, attribuzione respinta da Roberto Longhi (1928) che parlò di un maestro "tardo, mediocre barocco accademizzante romano, simile a Ludovico Geminiani".
In seguito al restauro condotto nel 1958 da Gilda Diotallevi, Paola della Pergola riconobbe la mano di un maestro romano, proponendo timidamente il nome di Guillame Courtois, pittore francese, attivo nel 1666 per il principe Giovanni Battista Borghese nella cappella del duomo di Monteporzio Catone. Secondo la studiosa, infatti, questa tela rientra nel gusto della pittura romana decorativa, tipica degli ultimi anni del Seicento e ravvisabile nelle opere del Cortese. Tale parere è stato accolto favorevolmente dalla critica (Fagiolo dell'Arco 2001) e nel 2006 da Kristina Herrmann Fiore.
L'opera rappresenta Girolamo, uno dei più importanti santi della Chiesa cattolica, considerato tradizionalmente l'autore della Vulgata. Secondo i testi agiografici più antichi, il santo si ritirò nel deserto della Calcidia, dove condusse una vita solitaria, dedicandosi alla preghiera, alla contemplazione e alla penitenza. La scena è qui costruita per piani, uniti sapientemente tra di loro da un uso della luce accorto e ben studiato e da una tavolozza di colori che, partendo dai toni caldi dell'antro della grotta e delle vesti del santo, invita l'occhio verso le montagne in lontananza e la radura con il corso d'acqua e un boschetto di alberi caratterizzati da tinte fresche e brillanti. La posa scultorea e plastica del santo e le sinuose delicatezze dell'angelo con la tromba - segnale che avrebbe annunciato agli uomini la fine dei tempi - sembrano rimandare a quella fortunata fusione di classicismo e barocco, operata a Roma nella seconda metà del Seicento da Carlo Maratti, la cui maniera, accanto alla componente cortonesca, è tipica della fase matura di Courtois e qui individuabile nelle delicate fisionomie dei due personaggi e nell'uso di una luce morbida e calda.
Antonio Iommelli