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Apollo e Dafne

Bernini Gian Lorenzo

(Napoli 1598 - Roma 1680)

Apollo è raffigurato nell’atto di correre, col piede destro a terra e il sinistro sospeso; il panneggio, che gli copre i fianchi e la spalla sinistra, accompagna il suo movimento. Egli, giunto al termine dell’inseguimento, poggia la mano sinistra sul corpo di Dafne. Sotto il tocco del dio, la ninfa, istantaneamente bloccata nella sua fuga con le braccia protese in alto e il volto che tenta di volgersi all’indietro, ha già mutato i suoi piedi in radici e le mani e i capelli in fronde di alloro.
Soggetto del gruppo scultoreo è la favola di Ovidio tratta dalle Metamorfosi, dove si narra di Apollo che, a causa di una vendetta di Eros, è da lui colpito con una freccia d’oro che lo fa invaghire della ninfa Dafne, seguace di Diana. La fanciulla, invece, trafitta da un dardo di piombo, rifiuta l’amore del Dio e prega suo padre Peneo, divinità fluviale, di farle cambiare sembianze. L’opera rappresenta il momento culminante della metamorfosi di Dafne in albero di alloro. Bernini crea una messa in scena teatrale, nella quale l’occhio dello spettatore segue lo sviluppo della trasformazione.
In origine la scultura era collocata sul lato della stanza contiguo alla cappella, poggiava inoltre su un basamento più basso dell‘attuale, espedienti utili ad aumentare l’effetto scenografico dell’opera e il conseguente coinvolgimento emozionale dello spettatore.

Scheda tecnica

Inventario
CV
Posizione
Datazione
1622-1625
Tipologia
Periodo
Materia / Tecnica
marmo di Carrara
Misure
altezza 243
Provenienza
Cardinale Scipione Borghese, 1625 (Minozzi 1998, pp. 437-440, docc. 61-78); Inventario Fidecommissario Borghese, 1833, C, p. 47, n. 85; Acquisto dello Stato, 1902.
Mostre
  • 1998 Roma, Galleria Borghese
  • 2017-2018 Roma, Galleria Borghese
Conservazione e Diagnostica
  • 1903 C. Fossi
  • 1954 E. Pedrazzoni
  • 1971 S. Giammei
  • 1996/ 1998 ICR

Scheda

Il tema del gruppo scultoreo è la favola di Ovidio tratta dalle Metamorfosi (I, 450-567), dove si narra di Apollo che, a causa di una vendetta di Eros, è da lui colpito con una freccia d’oro – il metallo più nobile – che lo fa invaghire della ninfa Dafne, seguace di Diana. La fanciulla, invece, trafitta da un dardo del vile piombo, rifiuta l’amore del dio e prega suo padre Peneo, divinità fluviale, di aiutarla e farle cambiare quelle sembianze che tanta passione avevano suscitato.

L’opera rappresenta il momento culminante della metamorfosi di Dafne in albero di alloro. Gian Lorenzo Bernini crea qui una messa in scena teatrale, nella quale l’occhio dello spettatore segue lo sviluppo della trasformazione: Apollo, al termine del suo inseguimento, ha finalmente raggiunto l’amata, che sta già mutando i suoi piedi in radici e le mani e i capelli in fronde. Lui tenta di afferrarla, ma le sue dita sfiorano non il suo corpo, ma la corteccia dell’albero. Da quel momento l’alloro diventerà caro al dio, che si cingerà il capo con le sue fronde, e sarà considerato attributo di artisti e poeti.

Attraverso la documentazione conservatasi è possibile seguire tutte le fasi dell’esecuzione del gruppo scultoreo, a partire dall’acquisto del blocco di marmo, avvenuto il 2 agosto del 1622, passando per i vari acconti versati allo scultore dal 1624, al pagamento del basamento, realizzato da Agostino Radi entro il marzo del 1625, fino alla definitiva messa in opera nell’agosto dello stesso anno e il saldo finale pagato a Bernini – che ricevette in totale 1000 scudi – il 24 novembre 1625, (Minozzi 1998, pp. 437-440, docc. 61-78). I documenti registrano una pausa di circa un anno nella lavorazione, durante la quale si colloca la realizzazione del David (inv. LXXVII), scolpito sempre per il cardinale Scipione Borghese.

I documenti, insieme alle fonti, restituiscono anche l’esatta collocazione dell’opera nella sala III, così come era stata stabilita da Bernini: essa doveva essere addossata alla parete confinante con la cappella e con la scala a chiocciola, in modo da accompagnare l’osservatore lungo il fianco destro di Apollo, farlo assistere alla fase finale del suo inseguimento, quando, raggiungendo la ninfa, sul suo volto lo stupore per la metamorfosi di Dafne sostituiva l’iniziale espressione trionfante. Bernini qui riesce a rendere nel marmo un attimo che è insieme narrazione ed esperienza emotiva.

Il gruppo è anche una dimostrazione di incredibile virtuosismo tecnico: un accorto lavoro di trapano per rendere le dita di mani e piedi che si trasformano in foglie e radici e le ciocche di capelli in movimento, colpi di scalpello a gradina per la corteccia, e diversi gradi di finitura per differenziare la superficie del panneggio da quella dell’incarnato. Il sapiente utilizzo dei tradizionali strumenti del mestiere ha reso possibile raffigurare nel marmo la metamorfosi, fino ad allora ritenuta oggetto del solo pennello, materia per pittori e non per scultori. Le indagini condotte in occasione del restauro del 1997 hanno rivelato che Bernini, per proteggere le parti più sottili e delicate della scultura dalle vibrazioni prodotte durante le lavorazioni successive, le avvolse in cuscinetti di gesso, che poi rimosse alla fine del lavoro (Zatti, in Bernini scultore, 2002, p. 202).

In alcuni degli stupefacenti dettagli di quest’opera si è ipotizzato possa aver messo mano Giuliano Finelli, uno degli abili collaboratori di Bernini, il cui intervento è citato da Passeri, anche se oggi, in seguito alle accurate indagini condotte sulla scultura, si tende a derubricare la notizia a una generica collaborazione (Minozzi, in Bernini, 2017, p. 178).

Come in altre opere di Bernini, anche qui è possibile riscontrare sulla superficie scultorea aree non rifinite, perché nell’intenzione dell’artista non erano destinate ad essere viste. Alla fine del Settecento, infatti, in occasione dell’intervento di riordino delle collezioni e di nuova decorazione delle sale voluto da Marcantonio IV Borghese, le più importanti statue antiche furono collocate al centro della sala e con loro anche il gruppo berniniano – unico fra le opere moderne, segno di un apprezzamento che ancora perdurava –, evento questo che costò al gruppo la perdita del punto di vista privilegiato pensato dal suo artefice. In seguito a un parere di Vincenzo Pacetti del 1785, il gruppo di Apollo e Dafne fu orientato nella posizione attuale (prima dava le spalle a coloro che entravano nella sala dalla cappella). Venne così a determinarsi la necessità di un ulteriore cartiglio – da collocarsi sul lato del basamento che veniva così a trovarsi in vista –, che fu realizzato da Lorenzo Cardelli a forma di aquila, e sul quale vennero incisi versi tratti dalle Metamorfosi di Ovidio. Esso doveva far da pendant a quello a foggia di pelle di drago, posto sul basamento sin dalla sua esecuzione, che conteneva distici composti dal cardinale Maffeo Barberini, “Quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae/ formae manus implet baccas seu carpita amaras”, il cui intento era di provvedere uno spunto di riflessione moraleggiante per lo spettatore. Dafne, infatti, già dalla fine del Quattrocento, era stata cristallizzata come simbolo della virtù che sfugge le insidie e resta incontaminata, sempreverde come l’alloro (Coliva, in Bernini scultore, 1998, p. 263).

I temi di Apollo e dell’alloro hanno inoltre un intento celebrativo del cardinale e della costruzione della Villa Pinciana, luogo di arte e di delizia. Per la figura del dio è evidente un riferimento di Bernini a una delle sculture più celebri tra quelle giunte fino a noi dall’antichità: l’Apollo del Belvedere, replicato qui con precisione filologica fin nei calzari (Coliva in Bernini scultore, 1998, pp. 261, 274 nn. 13, 14).

Esso si combina con un’altra celebre fonte iconografica: il particolare con Aci in fuga nell’affresco di Annibale Carracci raffigurante Polifemo, Aci e Galatea in Palazzo Farnese. Per il volto di Dafne è evidente un richiamo alla madre in fuga nella Strage degli innocenti di Guido Reni, il pittore più amato da Scipione Borghese. Sono state notate assonanze anche con il dipinto raffigurante Atalanta ed Ippomene eseguito dal Reni per Ferdinando Gonzaga: entrambe le composizioni seguono lo stesso ritmo, una divaricandosi, l’altra riunendosi, dando vita a una raffigurazione allegorica del movimento (Coliva, in Bernini scultore, 1998, pp. 272-273; Coliva 2017, pp. 140-144).




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