Statua femminile, al vero, identificabile con un’immagine di Artemide. La testa, antica ma non pertinente, è una integrazione ottocentesca. Restaurata nel Seicento come Talia, Musa del teatro comico, la scultura costituisce una variante dell’Artemide di Dresda e presenta tratti in comune con il tipo Monaco-Braschi.La figura è stante, con il ginocchio destro leggermente piegato. Indossa un chitone coperto da un ampio e lungo peplo, che scopre le sole punte dei piedi, lasciando intravedere parte del sandalo. Il braccio destro è sollevato e, sebbene sia moderno, richiama la posizione assunta in antico. La mano destra, infatti, doveva prendere un dardo dalla faretra retrostante. Il sinistro, invece, è rivolto verso il basso. Su questo lato, in antico, doveva poggiarsi l’arco. L’avambraccio, con la mano, e la maschera sono di restauro e derivano dall’interpretazione antiquaria come musa.
Il corpo è una copia di età imperiale di un modello prassitelico, mentre la testa rappresenta una creazione adrianea ispirata alle immagini di Afrodite di epoca ellenistica. Probabilmente, questa replica romana può identificarsi con una statua-ritratto.
Una incisione di Giovan Battista De Rossi del 1641 riproduce la scultura testimoniandone la provenienza da Villa Medici. Sul piedistallo, infatti, è riportata l’indicazione in horti Mediceis (Roma, Gabinetto Nazionale delle Stampe FC 282 vol. 26 F7; vedi Gasparri 1987, p. 265).
Già esposta in una delle nicchie della facciata di Villa Medici, nell’incisione di De Rossi la statua è raffigurata assieme ad altre tre sculture femminili, nel Seicento parimenti interpretate come Muse. Se una di esse è, in realtà, l’Artemide Borghese (inv. CXXXVII, sala IV) dalla collezione Giustiniani, nell’altra, già esistente negli horti Burghesiani, si riconosce la statua di Musa con chitone altocinto sulla balaustrata del Palazzo Borghese (De Lachenal 1982, p. 82, nr. 25; citata anche nell’inventario della Primogenitura del 1610, Ead. p. 96, nr. 57. Per il disegno di Felice Giani, Ead. fig. 58). La quarta scultura, proveniente dagli horti Ludovisiani, potrebbe infine identificarsi con una delle figure colossali esposte nel cortile dello stesso Palazzo (Gasparri 1987, pp. 263-264).
I disegni di Franz Caucig e di Johann Heinrich von Dannecker, eseguiti rispettivamente dopo il 1779 e nel 1789, riportano la nuova collocazione nel Palazzo Borghese, con una nota che potrebbe meglio riferirsi al casino della villa e non al Palazzo in Campo Marzio (Gasparri 1987, p. 265). Ad ogni modo, non si dispone, almeno al momento, di ulteriori notizie in merito alle modalità o alla data d’ingresso in collezione. Tuttavia, è possibile valorizzare la notizia dell’acquisto di un gruppo di sculture provenienti da Villa d’Este (si tratta dell’Eracle con Telefo, dello Spinario, del cd. Polluce del Louvre e della Leda), avvenuto nel corso del XVIII secolo. Non può escludersi, dunque, che l’Artemide/Musa sia stata acquisita nello stesso periodo, in particolare intorno agli anni Ottanta del Settecento, quando la collezione medicea viene trasferita Firenze, forse in coincidenza con il riallestimento e le trasformazioni avvenute nella villa Borghese sotto la direzione di Antonio Asprucci (cfr. Gasparri 1987, p. 265) per conto di Marcantonio IV.
Tuttavia, si potrebbe pensare, come pure è stato suggerito, ad un ingresso risalente nel tempo e a una diversa sistemazione nella villa prima del trasferimento nelle sale interne.
A tal proposito, Manilli e Montelatici parlano di due statue con la maschera, indicate come Poesia o Talia: la prima collocata dinanzi all’ingresso da via di Porta Pinciana, l’altra, «con una maschera nella man sinistra, e con la Tibia nella destra», posta nel Teatro del II recinto. Quest’ultima, forse, potrebbe essere l’Artemide della sala IV (Manilli 1650, p. 149; Montelatici 1700, p. 83; Moreno, Viacava 2003, p. 202).
L’Inventario Fidecommissario Borghese del 1833 ricorda l’esposizione della Musa, disegnata anche da Bertel Thorvaldsen, in una delle sei nicchie della sala nobile, allora definita Galleria degli Imperatori, accanto a una Venere marina, a due statue di Diana (inv. CXXIX; CXXXVII) e a due figure di Bacco. Adolfo Venturi, nella guida della Galleria del 1893, menziona la statua di una «giovane donna che ha nella sinistra una maschera», precisando come tanto le braccia, quanto l’attributo, già presente nell’incisione di De Rossi, siano di restauro. Antonio Nibby nota il delicato panneggio della scultura, che anch’egli ritiene essere stata realizzata in marmo greco, e si sofferma a sua volta sulle integrazioni operate dal restauratore moderno che «diè la maschera comica, facendone in tal guisa una Talia» (Nibby 1832, p. 90).
Quanto agli interventi di restauro eseguiti sulla scultura, assume particolare rilievo la sostituzione della testa, inserita con un collarino, al momento della sistemazione in sala nobile. La «Musa Talia scolpita in marmo greco di ottimissimo stile» compare, infatti, nella quinta nota degli oggetti affidati al D’Este e al Laboureur, che ricorda come, per 60 scudi, fosse stata «levata la brutta testa che vi era prima, e postovi altra graziosa» (AB, B. 1007, fasc. 301; Moreno, Sforzini 1987, p. 362).
La figura appare come una variante dell’Artemide tipo Dresda. Indossa un lungo peplo panneggiato, con ampio apòptygma, che copre un chitone con la manica sino al gomito, ben visibile nella parte antica sul braccio sinistro e ripresa sul destro moderno. Il busto è attraversato dal balteo che doveva sostenere la faretra. Evidentemente, gli attributi originari dovevano essere l’arco, tenuto con la mano sinistra, data la posizione del braccio rivolto verso il basso, e le frecce, che la dea si accinge a prendere sollevando il braccio destro. Il restauro riprende la posizione antica, indiziata dall’altezza della spalla e dalla asimmetria del seno destro.
La testa leggermente reclinata a sinistra e i tratti morbidi e delicati conferiscono al volto un aspetto trasognato. Il corpo replica il modello prassitelico dell’Artemide di Megara (Moreno 2001, pp. 151-157), mentre la testa, inquadrabile nell’arco dell’età adrianea, è un tipo ideale, ispirato ai volti di Afrodite del IV secolo a.C.
L’elemento del chitone che copre le braccia lascia immaginare che questa copia sia stata originariamente impiegata come statua-ritratto. In età imperiale, infatti, non è infrequente l’adattamento di tipi statuari ideali o adottati per le divinità a statue-ritratto di matrone e personaggi di alto rango. La testa sostituita al momento dell’ingresso in sala IV poteva dunque conservare il ritratto antico.
Noto attraverso numerose copie e varianti, il tipo iconografico, derivante da un originale di Prassitele, gode di ampia fortuna in età romana. La resa formale e stilistica manifesta un sapiente trattamento della superficie marmorea, accurato soprattutto nelle pieghe del peplo, che accompagnano il movimento, seppure appena accennato, del corpo e nella trasparenza restituita alla manica sinistra del chitone, che lascia intravedere la spalla.
L’impostazione del corpo della scultura Borghese trova confronto con l’Artemide della Collezione Sorgente Group, già in Collezione Versace, una variante dello stesso tipo cronologicamente di poco posteriore. Affine è anche l’esemplare della Glyptotek di Monaco (inv.gl. 227), che identifica il tipo Monaco-Braschi. Seppure diversi per l’iconografia – in entrambi i casi il braccio destro doveva accompagnare il profilo del busto, mentre il sinistro poteva poggiarsi su un fianco o tenere l’attributo – sono accostabili alla statua Borghese per la resa del panneggio. Nella scultura di Monaco, inoltre, il chitone copre similmente la spalla. Interessante, e parte della medesima serie, è infine la replica del Museo di Foggia (inv. 65OR38), analoga per la presenza del mantello laterale e per il trattamento della veste sul busto e sulle gambe.
Nella storia degli studi il prototipo dell’Artemide tipo Dresda si riconosce nella statua di culto realizzata da Prassitele per il santuario di Apollo Prostaterio a Megara o per il Letoion di Mantinea (370-365 a.C. circa), mentre la tipologia Monaco-Braschi deriverebbe dall’Artemide Soteira di Megara (350 a.C. circa), anch’essa un originale prassitelico (L. Todisco, Scultura greca del IV secolo. Maestrie scuole di statuaria tra classicità ed ellenismo, Milano 1993).
Clara di Fazio